Greenpeace, Legambiente
e WWF a Siracusa per dire no alle
trivellazioni nel Canale
di Sicilia e chiedere l’abrogazione
dell’articolo 38 del decreto Sblocca-Italia
“Indispensabile rivedere
la politica energetica nazionale ed abbandonare definitivamente
la strada delle fonti
fossili”
L’Italia
non è una colonia dei signori del petrolio. A ribadirlo sono Greenpeace, Legambiente e WWF oggi a Siracusa, seconda tappa del programma di iniziative
ambientaliste organizzate nei “punti caldi” della Penisola, per dire no al
rilancio delle trivellazioni a terra e a mare. A bordo della nave di
Greenpeace Rainbow Warrior, ormeggiata nel porto di Siracusa, le tre
associazioni ambientaliste hanno
criticato i contenuti dell'art. 38
del decreto "Sblocca Italia" con il quale, grazie ad una serie di
forzature normative e costituzionali, si rilanciano indiscriminatamente su
tutto il territorio nazionale, sia a terra che in mare, le attività di
prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi in Basilicata e nei mari Adriatico, Ionio, Alto Tirreno e nel
Canale di Sicilia.
In
particolare in Sicilia è in corso un
vero e proprio assalto al mare da parte delle compagnie petrolifere: sono 12.908 i chilometri quadrati
interessati dai cinque permessi di ricerca già rilasciati e da altre 15
richieste di concessione, ricerca e prospezione avanzate. Questo,
nonostante, già oggi nel Canale di
Sicilia vengano estratte (dato a fine 2013) 301.471 tonnellate, il 41% del totale nazionale del petrolio estratto
in mare. Dal mare
alla terra il passo il breve. Anche sul territorio siciliano sono
forti gli interessi delle compagnie petrolifere. Già oggi l’attività è
particolarmente intensa, con 5 impianti (Gela, Giurone, Irminio,
Ragusa e S. Anna) da cui vengono
estratte (dato al 2013) 714.223 tonnellate
di petrolio (il 15% della produzione nazionale su terraferma). A queste si
devono poi aggiungere i 5 permessi di ricerca, per poco più di 3700 kmq di
superficie, e le 11 istanze per 164 mila kmq circa oltre le tre richieste per
aprire nuovi impianti estrattivi. Senza contare che gran parte delle richieste in
fase di valutazione provengono da compagnie straniere, la cui attività non
porterà benefici all’economia nazionale. Una corsa all’oro nero che rischia tra
l’altro di compromettere per sempre il futuro delle popolazioni coinvolte da
possibili incidenti che metterebbero in pericolo ambiente, turismo e pesca. Per
questo Greenpeace, Legambiente e WWF da
Siracusa chiedono ai membri della Commissione Ambiente della Camera dei
deputati di decidere per l’abrogazione dell’art. 38 del decreto legge Sblocca Italia e lanciano un appello al Governo e Parlamento
affinché si abbandoni definitivamente la strada delle fonti fossili e si segua,
invece una nuova politica energetica che punti all'efficienza ed alle rinnovabili.
“Il Governo Renzi, con le disposizioni
contenute nell’art. 38 del decreto legge Sblocca
Italia, - spiegano le associazioni - favorisce la nuova colonizzazione del
nostro territorio e dei nostri mari da parte dell’industria petrolifera, invece
di difendere l’interesse pubblico ad uno sviluppo economico sostenibile. In
particolare l’articolo 38 è nel solco di una strategia del Ministero dello
Sviluppo Economico che tende a favorire gli interessi dei petrolieri sin dal
2010, quando ci fu la modifica del Codice dell’Ambiente (con l’art. 2 del
decreto legislativo 128/2010) sulla interdizione alle attività di prospezione,
ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi in una fascia di 12 miglia dal perimetro
esterno delle aree naturali protette marine e costiere, e cerca di scardinare
qualsiasi norma prudenziale, prima con l’apertura delle attività nel Golfo di
Taranto, già nel 2011, poi con la sanatoria delle “procedure in corso” al giugno 2010 seppur localizzate nelle aree
interdette (contenuta nell’art. 35 del “decreto sviluppo” n. 83 del 2012) e
ancora con l’individuazione di una nuova area di sfruttamento, grande quanto la Corsica , tra la Sardegna e le Baleari
(con il Decreto Ministeriale del 9/8/2013).
Le associazioni ritengono, tra l'altro, che
le disposizioni contenute nell'art. 38 del dl 133/2014: 1) consentano di applicare le procedure semplificate e accelerate
sulle infrastrutture strategiche ad una intera categoria di interventi senza
individuare alcuna priorità; 2) trasferiscano d’autorità le VIA sulle attività
a terra dalle Regioni al Ministero dell’Ambiente; 3) compiano una forzatura
rispetto alle competenze concorrenti tra Stato e Regioni cui al vigente Titolo
V della Costituzione; 4) prevedano una concessione unica per ricerca e coltivazione
in contrasto con la distinzione tra le autorizzazioni per prospezione, ricerca
e coltivazione di idrocarburi del diritto comunitario; 5) applichino
impropriamente e erroneamente la Valutazione Ambientale
Strategica e la
Valutazione di Impatto Ambientale; 6) trasformino
forzosamente gli studi del Ministero dell’Ambiente sul rischio subsidenza in
Alto Adriatico legato alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di
idrocarburi in “progetti sperimentali di coltivazione”; 7) costituiscano una
distorsione rispetto alla tutela estesa dell’ambiente e della biodiversità
rispetto a quanto disposto dalla Direttiva Offshore 2013/30/UE e dalla nuova
Direttiva 2014/52/UE sulla Valutazione di Impatto Ambientale.
In Sicilia tra le ultime richieste presentate due sono quelle
relative alle attività di prospezione. Entrambe sono state presentate
nell’aprile scorso dalla Schlumberger Italia per un’area di 6.380 kmq. Una
riguarda il mare nella zona a largo di Agrigento e di fronte la costa orientale
di Pantelleria; mentre la seconda si pone l’obiettivo di indagare l’area che di
recente il Governo ha messo a disposizione delle compagnie petrolifere. Si
tratta infatti dell’ampliamento decretato nel dicembre 2012 (DM 27 dicembre
2012), della Zona C nello Ionio meridionale compresa tra Capo Passero e Malta.
Altro che nuovi limiti e divieti per le attività estrattive, come spesso sono
state presentate le ultime disposizioni normative, anche da questi elementi si
evince come l’interesse delle compagnie petrolifere sia sempre più forte nei
confronti del mare italiano e come lo stesso Governo nazionale negli ultimi
tempi abbia varato diverse norme che favoriscono le società proponenti e
ampliano le aree di attività a disposizione per la loro attività. Le
piattaforme attive sono Gela 1, Gela Cluster, Perla e Prezioso, di proprietà
della società Eni Mediterranea Idrocarburi, e Vega A, di proprietà di Edison. A
queste rischiano di aggiungersene 4, oggi in fase di valutazione di impatto
ambientale. Due nel tratto di mare antistante Licata e Palma di Montechiaro e
una di fronte la costa meridionale di Pantelleria, dove è già stato rilasciato
anche un permesso di ricerca per 657 kmq di area marina. Oltre a queste c’è poi
il progetto di ampliamento dell’attività estrattiva accanto alla piattaforma
Vega A di Edison, a largo di Pozzallo, con un secondo impianto denominato Vega
B.
Dalla Sicilia, l’isola
che ospita 3 tra le più grandi raffinerie di petrolio del Paese e ne patisce le
pesanti conseguenze ambientali e sanitarie, le associazioni ambientaliste
lanciano l’appello a fermare la deriva petrolifera, nell’interesse generale del
Paese e di gran parte dei settori economici più avveduti, per avviare anche in
Italia una rivoluzione energetica, garantendo uno sviluppo sostenibile e
duraturo sul piano economico e occupazionale. A dimostrazione dell’assurdità della
scelta di puntare ancora sul petrolio, basti ricordare che le quantità di
greggio stimate sotto il mare italiano sono di poco meno di 10 milioni di
tonnellate e, visto che il nostro consumo annuo è pari a 61 milioni, si
esaurirebbero in soli due mesi. Considerando anche quelle sotto il suolo
italiano si arriverebbe a 82 milioni di tonnellate di riserve certe, anche in
questo caso però durerebbero per poco meno di 17 mesi.
Dopo
Siracusa, le altre iniziative ambientaliste organizzate da Greenpeace,
Legambiente e WWF per dire no al rilancio delle trivellazioni a terra e a mare
saranno: il 27 ottobre a Pescara (in Abruzzo), a Bari (in
Puglia) e a Potenza (in Basilicata).